IL MIO TRIPLETE AL MONT VENTOUX
Non avrei mai pensato di riuscire un giorno a scalare il Mont Ventoux, e invece mi ritrovo qui, sulle rampe impossibili di questo Moloch in Provenza, a resistere alla forza di gravità che vorrebbe rimandarmi in pianura, mentre io voglio salire dove solo gli Dei del ciclismo hanno pedalato. L’ho fatto un giorno, l’ho rifatto il giorno dopo, e dopo ancora: tre volte, in una gara a tappe dal sapore british.
Quando arrivo in albergo è già sera tardi, e la luna piena mi ha fatto compagnia durante il tramonto. Un viaggio silenzioso nel buio della Provenza. Nella hall la signora dell’hotel mi ha lasciato le chiavi della camera 10, su al primo piano, e Elodie dell’ufficio stampa, ha depositato sulla porta il pacco gara: pettorale 390. Porto tutto in camera, bici compresa, e svuoto una valigia, uno zaino e una borsa di roba da ciclismo. Domani mattina inizia la prima delle tre tappe della Haute Route Mont Ventoux. Inizia così la sfida alla prima edizione della gara al “monte calvo”, una prova amatoriale dai forti connotati “pro”, con elementi che scoprirò nei tre giorni, tipici delle gare dei professionisti.
Si parte da Bedoin, un villaggio stretto tra le pendici del monte ventoso e infiniti filari di vite che producono un vino DOC noto come Côte-du-Ventoux, uno dei souvenir che porterò a casa, magari da stappare in una fredda serata invernale, raccontando l’epica della salita con la sua sofferenza e quel piacere insondabile che sa dare la bicicletta.
Sono in mezzo a quattrocento partenti, gran parte di lingua inglese, vista l’origine britannica dell’organizzazione, ma sui pettorali campeggiano varie bandiere, dal Brasile al Canada, e poi Spagna, Olanda, Belgio, Messico, Nuova Zelanda, insomma, un ventaglio internazionale. Ventaglio, che peraltro, abbiamo cercato maldestramente di impostare quando il vento maestrale mitragliava la pianura del Vaucluse, costringendoci a tenere ben salde le mani sul manubrio. Una frazione di 106 chilometri, ridotta a cento, con gli organizzatori costretti ad anticipare il traguardo allo Chalet Reynard a circa 1.500 metri di quota, proprio dove il bosco lascia spazio alla famosa pietraia. Prima però, scollino il Trois Termes e il colle di Liguière, quest’ultimo circondato da linee parallele di ciuffi di lavanda, che si sveglieranno in primavera in una esplosione di viola e lilla. Intanto il colore dominante di questo inizio d’autunno in Provenza è il classico foliage dei castani: macchie di rubino e pennellate di giallo ocra che noi attraversiamo in piccoli gruppetti scortati da motociclisti con pettorina fluo e radioconnessi con la base. A fianco delle bandierine sui pettorali c’è anche il nome di ognuno di noi, e questo facilita l’approccio: sulle prime rampe del Ventoux mi supera un “forsa Carlo” con accento molto parigino, e rispondo con un “allez Victor” al compagno transalpino. Tamara ha la coda bionda che spunta dal caschetto e la bandierina sul pettorale conferma le sue origini tedesche. Un paio di brasiliano sbuffano e spingono
duramente sui pedali. Si sale insieme, lentamente. A tratti il sole scalda il bosco di pini e il profumo della resina entra nei polmoni. Penso agli ingegneri che hanno progettato queste strade, limitando al minimo i tornanti e tracciando il percorso in una sorta di ‘dritto per dritto’, e costringendoci a lottare con lunghe pendenze spesso superiori all’11 per cento. Me la prendo con il genio civile francese, ma in realtà sono le mie gambe che dopo 80 chilometri chiedono pietà. Il traguardo allo chalet sembra una benedizione, e il ristoro che ne segue un succulento pranzo di Natale.
Il secondo giorno, sono previsti 140 chilometri di cui gli ultimi 20 con l’attacco al Ventoux dal versante occidentale di Malaucène. L’avvicinamento ci porta attraverso le Gorges de la Nesque, un canyon boschivo tagliato a metà da una strada poco trafficata che ci invita a pedalare in gruppetti numerosi di 30, 40 ciclisti. È un continuo attaccare e spingere, senza pensare di riservare energie per la scalata finale. Sulle salite del Col d’Aulan, del Col de Peyruergue e del Col d’Ey il mio gruppo si assottiglierà in quello che tutti noi chiameremo il “gruppetto”, una dozzina di ciclisti provenienti da 11 nazioni diverse (dal Canada sono in due) e comandato nello spirito di aggregazione dall’unico italiano presente. L’olandese Wouter indossa la maglia della Fausto Coppi a cui ha partecipato lo scorso anno, mentre Florian è svizzero e suona le percussioni nell’orchestra sinfonica di Ginevra. Più casinista di me c’è solo Jacques, bandiera del Lussemburgo, che mi ricorda un raduno di Ferrari con cui passò da Bergamo, la mia città. Oggi si tiene anche Il Lombardia e io indosso la maglia commemorativa che santini ha disegnato lo scorso anno. All’arrivo ai ristori è mio compito gridare “Gruppetto, four minutes…” e scandire il count down al termine di ogni minuto. Il piccolo gruppo intercontinentale riparte unito e si scioglie alle prime rampe di Malaucène, ognuno abbandonato al proprio destino, nella continua lotta contro pendenze a due cifre percentuali. Il calvario prosegue finché si raggiungono gli ultimi due tornanti che portano al grande edificio della vetta del Ventoux come fossero le stazioni terminali di una via crucis ciclistica. In cima si domina tutta la pianura, e dominare l’emozione non è cosa facile.
Terzo e ultimo giorno, quello della cronoscalata. Il Ventoux dalla via diretta da Bedoin. La stessa strada del Tour, insomma: si entra nell’olimpo. Per terra ancora le scritte della tappa 2016 e il disegno sbiadito di un pirata, perché il ricordo di Marco non si cancella tanto facilmente. La lingua d’asfalto si inerpica nel bosco a pendenze spacca gambe: le % le vedo ovunque, sul Garmin, scritti per terra, sui cartelli dell’organizzazione e persino sui blocchi bianchi e gialli a bordo strada. Sono perseguitato, e sono lentissimo. Pensavo di star meglio, anche grazie alla crioterapia del giorno prima (a meno 150 gradi centigradi per tre minuti, roba da provare!) ma alla fine niente si improvvisa. Nelle cronometro devi cercare di superare chi ti precede, e di non farti superare da chi ti segue. Tengo il conteggio, come un bilancio economico, ma ben presto interrompo la contabilità quando quelli che mi superano sono decisamente di più di quelli che ho superato.
Capisco che il rapporto 34×28 è troppo duro, perché vedo intorno a me gente che frulla le gambe neanche fosse il keniano bianco. Il Ventoux non perdona, mi verrebbe da dire, e io ho bisogno di essere confessato per tutti i miei peccati, ciclistici si intende. Una moto dell’organizzazione si avvicina e mi dice qualcosa che non capisco. Solo dopo dieci minuti intuisco il significato: traguardo anticipato per vento troppo forte in vetta al Ventoux. Peccato. Mi perdo la pietraia finale, quella della stele di Tom Simpsons, quella dell’attacco a due di Pantani e Armstrong, quella per cui si è meritato il soprannome di monte calvo. Ma tant’è, ce ne faremo una ragione.
Rientro in albergo: doccia, valige e ripiego il pettorale per bene. Lascio la chiave della camera n.10 alla signora che con un sorriso mi augura “à bientòt”. Viaggio, e quando arrivo al confine italiano fa già buio: la luna sta calando, come le mie energie. Il Ventoux le ha bruciate lasciando un marchio di fuoco sulle pareti dell’anima.
Tutte le informazioni su www.hauteroute.org
[articolo pubblicato su corriere.it il 17.10.2017]
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