ERAVAMO QUATTRO AMICI ALLA MILANO GRAVEL
Il racconto della prima edizione della spedizione off-road che dalla città meneghina ha portato un centinaio di pedalatori a scoprire tracciati gravel nel parco del Ticino. Un’esperienza semplice ma dal forte contenuto ludico che ha attirato persino uno svizzero di Zurigo e …
Alle sette della mattina Milano dorme ancora. È sabato, quel giorno di mezzo che un po’ si lavora, un po’ no. Per le vie della città si vedono facce ridanciane e provate da una notte di piaceri che pare non essere ancora finita mentre il tergicristalli continua a pulire il vetro da secchiate di acqua. A metà della scorsa settimana gli organizzatori della Milano Gravel Roads hanno mandato una mail che parlava di bollettino meteo preoccupante, e in effetti per le vie della città le facce saranno gaie e allegre ma anche belle bagnate. L’appuntamento è alla Canottieri San Cristoforo, una delle tre società di remi affacciate sul Naviglio Grande: nel cortile di ghiaia (e questo è un primo indizio) tra barche e canoe si ritirano i numeri adesivi e il tabellino da timbrare ai punti di controllo lungo il percorso di 160 chilometri «di cui un centinaio sterrato» mi scrive il Paolo che della Milano Gravel è, prima che organizzatore, un vero ideologo.
Come per magia smette di piovere e, in preda ad attacchi di ottimismo, ci togliamo la mantellina impermeabile per riporla nella tasca posteriore della maglia. Alzando gli occhi al grigio del cielo, qualcuno borbotta che forse servirà più tardi. Pronti via alle 8 e qualche minuto mentre la città si riempie di quei rumori che fanno tanto ‘sveglia’ come l’alzata delle saracinesche, il fischio della macchina Cimbali del bar oltre il canale o il clacson perché quello davanti non è ancora partito dopo che il semaforo è diventato verde da un secondo e mezzo. Lasciamo le nevrosi meneghine alle spalle e in un centinaio ci avventuriamo verso sud: direzione Parco del Ticino. Ci fa compagnia il Naviglio sulla sinistra e dopo un po’ abbandoniamo la modernità per confonderci nell’amalgama agricola di paesi dalla toponomastica lombarda, nomi corti e razionali, senza troppi fronzoli, quasi anonimi: Cusago, Albairate, Cisliano, Bernate, Robecco. Alterniamo tratti asfaltati a lunghi rettilinei sterrati che tagliano campi bordati da fossi e punteggiati da olmi secolari. Di quegli ottanta della partenza, mi ritrovo con una trentina di pedalatori silenziosi e delicati. Le nostre bici sono gravel dalle geometrie stradaiole ma con ruote tassellate da ciclocross o qualcosa del genere. Ogni tanto qualcuno, complice le condizioni meteo che fanno pensare all’Inferno del Nord, si ingarella e sgasa watt e sudore in lunghe trenate rimbalzando da una buca all’altro, cercando di attutire i colpi al collo, alle braccia, alla schiena, stando attento a non finire nei mucchi di letame agli angoli delle cascine. Quando si esce dai tratti sterrati, proprio come alla Roubaix, i primi rallentano e il gruppo si ricompone, magari un po’ decimato ma pur sempre in gruppo. La traccia del Garmin sul manubrio ci guida al primo moloch della Milano Gravel, il ponte sul Ticino di Turbigo, una struttura in acciaio a due piani: sotto ci passiamo noi e le auto, sopra il treno.
Passato il ponte si svolta giù a sinistra e inizia il piatto forte di questa Milano Gravel: accarezzando il fiume e i canali del Naviglio Langosco e del Naviglio Sforzesco si arriva a Vigevano e alla sua splendida Piazza Ducale. Ma com’è che in 50 non l’avevo mai vista? Splendido esempio di architettura rinascimentale: una meraviglia. Il salotto bene di Vigevano cade all’uopo perché con l’Antonio decidiamo che, dopo quello del checkpoint di Valtorre, di prenderci un secondo caffè, questa volta con brioscina alla crema, e relativo selfie.
Lasciamo l’opera di Ludovico il Moro alle nostre spalle, e anche un bel manipolo di ciclisti della spedizione e in una decina giriamo il manubrio in direzione sud-est per entrare nei boschi che lambiscono il Ticino, in un toboga di single track e sentieri tappezzati di foglie bagnate che aggrediamo a tutta, come fossimo bambini al luna park. Processo di regressione in corso: a bordo della Trek nuova di pacca mi sembra di essere di nuovo nel campo del Bonaldi dove nei pomeriggi del dopo-scuola andavamo con le nostre bici scassate “a fare cross”, a rincorrerci, a fare i salti, a sbucciarci le ginocchia, a solcare pozzanghere marroni. Oggi però con questa Checkpoint di Trek è tutta altra cosa, sembra di volare, e dove metti l’anteriore, sai che il rischio di cadere è minimo, il controllo è quasi totale. E soprattutto, quando tornerai a casa, sai che non dovrai giustificare a nessuno perché sei pieno di fango.
Ogni tanto il tracciato si apre alla luce del sole, come quello che sfiora un ponte di legno marcio che attraversa un piccolo bacino dove due cigni bianchi si fanno compagnia spiumandosi l’un l’altro e ci guardano incuriositi. Da qualche chilometro siamo in quattro, o meglio, siamo rimasti in quattro, altri non se ne vedono: è la strada che sceglie i tuoi compagni di viaggio, non sei tu che decidi. Per esempio gli sterrati del Ticino hanno deciso che oggi, io e l’Antonio, avremmo pedalato con due sconosciuti che rispondono al nome di Patrick, uno svizzero che lavora nelle assicurazioni a Zurigo dal trascorso agonistico nel canottaggio (gli piace lo sci di fondo e questo me lo fa stimare ancora di più), e di Fabrizio da Collegno che nei tratti di pausa ci racconta l’esperienze al Fiandre, alla Liegi e ovviamente alla Roubaix, e noi, io e l’Antonio, che non abbiamo ancora finito questa, già pensiamo alla prossima. Un’ultima sosta a Rosate per un toast, una Coca e quattro ciacole con i compagni di viaggio. Al rientro le vie di Milano sono belle piene di auto provenienti dall’Esselunga e dall’Ikea, e sui navigli le ragazze corrono con le cuffie nelle orecchie. Sono gli ultimi colpi di pedale prima dei ‘cinque alti’ tra noi reduci di questa prima edizione: Patrick dice che non pensava che a due passi da Milano ci fosse un territorio così selvaggio come il Ticino; Fabri che si è alzato alle quattro di mattina per essere qui, è entusiasta; Antonio felice per aver cavalcato una Cinelli da sogno che spera un giorno di infilare nel garage; io mi sorprendo ancora di come sia semplicemente divertente pedalare per il piacere di farlo.
Alla Canottieri quattro hot-dog caldi e altrettante birre fanno da contorno alle nostre chiacchiere e allo scambio di email: «Ti mando le foto» certo le foto, perché le suggestioni dello sterrato umido firmate Milano Gravel Roads, quelle, ce le siamo già prese.
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