IL GRANDE (CALDO) FREDDO
Ritrovo un gruppo di amici dopo trent’anni e li porto a vivere una esperienza al limite dell’impossibile: sciare facendo fondo! Ecco com’è andata
Hanno aspettato di aver cinquant’anni per infilarsi un paio di sci, per sfidare l’equilibrio e la gravità, e adesso che guardo questa collezione di fotografie e selfie, è come se i granelli della clessidra si fossero inceppati. Siamo cresciuti insieme, tra le vie di un quartiere in una città austera, severa e devota, e per noi la neve erano solo palle bianche da lanciarsi fuori da scuola. Li ricordo i freddi inverni della pianura, e ricordi le corse nella nebbia e le piante in fiore sulla strada verso le nostre case. Cresciuti insieme, si è vero, costruendo ognuno la propria personalità, coltivando interessi e piaceri che spesso, nella acerba smania di scoprire dove fosse il limite, ci ha portato (a volte) a sfiorare i confini del buon senso. Si era giovani, si era spavaldi, e soprattutto si era curiosi e quest’ultima negli anni, si è rivelata la più grande qualità del nostro gruppo. Poi il vuoto. Tuttavia la fortuna e le vicende della vita ci hanno portato qui, in un giovedì di fine dicembre nato per gioco, sulla chat costruita per trovarsi e ritrovarsi, ed ora che impagino le emozioni, quello si è rivelato un giorno da asterisco rosso sul diario, ore spese insieme che ricorderemo a lungo, e che avremmo voluto non finissero mai. Quando fermo la macchina sotto casa per farli scendere, stanchi dopo una giornata a spingere di braccia con quegli strani attrezzi dal nome corto e veloce come sci, non si è fatta fatica a migrare nel bar lì accanto a concludere la condivisione di un prosecco: ancora un ricordo dai, ancora un aneddoto da rispolverare, e una confessione per concludere.
La sera prima apro gli armadi, attingendo a decenni di abbigliamento sportivo da distribuire equamente agli amici che mai hanno provato la lenta ebbrezza del fondo: l’indomani riceveranno il sacro battesimo dello sci. La pista da fondo sarà la nostra cattedrale, la macchina che guiderò la nostra cripta. Dai calzini in fibra elasticizzata al cappellino aerodinamico, passando per l’underwear funzionale in micro fibra. Occhiali e guanti compresi. Il tutto dentro sacche colorate, una per ognuno di loro. Al Brasi la sacca blu, colore del cielo, lui che ancora qualche centimetro e tocca i due metri. Al Medo la gialla, il colore del sole, quello dell’Africa che abbiamo conosciuto insieme. Al Paolino quello verde, il colore dell’erba del Parco di Redona. Al Celeri, il rosso, il colore della passione per la vita. Concludo la distribuzione dei pani e dei pesci in garage, dove tra Fischer e Rossignol di vario genere costruisco una sacca da sogno per i miei provetti sciatori. Stanco mi sdraio a letto, la mattina dopo l’appuntamento è per le otto. “Puntuali né” e puntuali sono stati.
Pranzi e cene di Natale sono alle spalle da alcuni giorni, gli abbracci trasmettono energia: i ragazzi fremono dal desiderio di sciare. Via dai, tutti in macchina che si va in Val di Scalve. Un’ora di macchina per scaldare i muscoli della memoria. “Ma vi ricordate quella volta che…” l’avremo ripetuto cento volte, come se fosse un kharma, una litania per rispolverare un diario mai scritto, e cento sono stati i racconti rigenerati, le fotografie sbiadite, gli episodi e i nomi caduti nell’oblio degli anni.
Arrivati al parcheggio del centro fondo di Schilpario la comitiva si sposta lentamente nello spogliatoio, ognuno col proprio sacchetto colorato. Bambini di cinquant’anni in colonia invernale. Dispensate le risposte ai dubbi della vestizione (“ehi, l’intimo va sotto e il pile va sopra….giusto?”) e ancor più quelle tecniche (“ma davvero il tallone resta libero…?) ci spostiamo sulla neve. Sarà una giornata difficile, dico sottovoce al Celeri, l’unico che abbia mai provato lo sci di fondo.
Li guardo e li vedo sorridere. È la curiosità del bimbo che culla dentro di noi che ci ha spinto in questo 28 dicembre a proiettarci in una nuova dimensione. “Su bravi, adesso entrate nei binari e vi spiego un paio di cose…”. Come soldatini ubbidiranno per tutta la giornata, votati a scoprire quella strana cosa che è il compromesso tutto nordico tra tenere e scivolare, una metafora della vita che ci ha visto in tempi ormai lontani scappare e tornare, unirci e dividerci, abbandonarci e ritrovarci. Le salite, anche le più piccole, sono enormi conquiste, e le discese “ardite” fonte di urla di gioia e aria pungente negli occhi. Sono felici, i miei amici, e io più di loro. Anime che si ritrovano, ognuno con la propria fatica di restare in equilibrio, ma tutti a respirare lo stesso ossigeno che ci accomuna.
Ogni tanto li fermo e apro la borraccia: nel tè caldo ho messo anche un gel energetico, un segreto non confessato nemmeno al pranzo che seguirà. Quando ripartono, sembra puledri che scalciano con la voglia di conquistare la prateria. Dopo tre ore e mezza rientriamo nello spogliatoio, loro esausti e chi scrive ancor di più. Stanchi ma felici può apparire una banalità, ma negli occhi resta accesa la luce dell’entusiasmo contagioso di chi ha ricevuto i regali la mattina di Santa Lucia.
Con le gambe sotto il tavolo e gli sci sul tetto della macchina, prosegue il Grande Freddo, scaldato da una polenta taragna e due splendide bottiglie di vino rosso, che mi suggeriscono come tutti noi cinque vorremmo fermare il tempo, e tornare a sciare sulle nevi dei ricordi.
Commenti recenti