ALLA HERO HO ABBRACCIATO UNA LEGGENDA
Sono cresciuto con quell’immagine di un biker e dei suoi baffi. Poi un bel giorno alla HERO, eccolo lì: è lui, Ned Overend, il primo campione mondiale di mountain bike, ma soprattutto il protagonista di una epica che negli anni 90 veniva da oltre oceano.
Ero a metà dei miei vent’anni, e tutto d’un tratto spuntarono queste bici colorate con cui andare per sentieri e strade di montagne. Ero curioso come lo sono oggi: una sera dopo il lavoro mi fiondo all’EICMA di Milano (un tempo la capitale del ciclismo mondiale) ed è stato come entrare in un parco giochi. Dall’America arrivava come un’onda di piena la moda di una bici che rompeva gli schermi, una roba che prometteva di raggiungere le vette delle montagne, di andar per boschi, di saltare i fossi e prendere il volo. Nasceva la mountain bike. Quel tipo di bici oggi la chiameremmo cancello, ma all’epoca aveva un nickname di tutto rispetto: rampichino. Tutta roba muscolare, s’intende: bici di prima del motore. Aveva il cambio al manubrio, la tripla come moltiplica, ai pedali le gabbiette dove infilare le scarpe, zero ammortizzatori, le ruote larghe e tassellate: i pneumatici erano generosi ed extralarge tanto che i giornalisti per coniare nuovi sinonimi ogni tanto le chiamavano le bici dalle ruote grasse (mutuato dall’inglese fat wheel). Insomma, nasceva una nuova era, un nuovo sport.
L’album dei ricordi.
E con nuove bici, ovviamente nuovi testimonial, nuovi eventi. Orizzonti da disegnare di giorno in giorno. Da oltreoceano arrivava l’eco delle prime gare sulla cosa west, dove tutto era nato. Tre su tutti i nomi che divennero presto leggenda: John Tomac, David “Tinker” Juarez e Ned Overend. Da questa parte dell’oceano, nel vecchio continente, noi si andava in edicola ogni mese ad aspettare l’uscita dei mensili di settore con le foto e le cronache di quelle gare là. Gli lasciavo giù venti, trentamila lire ogni mese, e la pila di riviste cresceva in camera, con mia madre che sbuffava perché non sapeva più come pulire.
E finalmente l’UCI si decise a prendere in grembo la disciplina della mountain bike e ad assegnare i primi campionati mondiali. L’appuntamento iridato a Durango, anno 1990. Oggi sembra preistoria a guardare le immagini di quelle gare. «Ma la nostalgia non è ammessa» mi dice Ned Overend, una vera leggenda vivente della mtb, tanto da meritarsi diversi nomignoli come il Polmone, la Pompa, Deadly Nedly (quest’ultimo perché partiva piano, e bruciava gli avversari nelle fasi finali della gara): «Ma a me piaceva “Il Capitano” perché ero l’atleta di punta del team mountain bike di Specialized».
Lo guardi e vedi gli occhi vispi del giovane ragazzo americano nato in una famiglia di diplomatici globetrotter, cresciuto un po’ qui e un po’ là, ma poi stabilitosi in Colorado, in quota, terreno ideale per ciclisti e ultrarunner. E come ai tempi d’oro di quando dominava in lungo e in largo, non ha esitato molto quando gli hanno proposto di volare in Italia e partecipare alla BMW HERO Sudtirol Dolomites.
Ci siamo scambiati qualche mail nei mesi scorsi, e già dal tono delle risposte ho capito che mi sarei trovato di fronte un “serie A”, un champion, un top di gamma. Un Capitano appunto.
Una leggenda a stelle e strisce.
Ovviamente non è la prima volta italiana per Ned: a parte il 1991 quando fu medaglia di bronzo ai mondiali del Ciocco, in Toscana, poi la memoria porta a una coppa del Mondo all’Isola d’Elba: «Fu una vera battaglia con Johnny Tomac, abbiamo combattuto lungo tutto il percorso: io guadagnavo terreno in salita e John accorciava in discesa. Ma poi ho vinto io». Ci manca solo che dica eh eh eh. «Poi sono stato tre volte alla Garda Marathon: una volta sono partito sotto una pioggia gelata che pian piano si è trasformata in neve mentre salivamo in quota». Qui non ride, si vede che non si era divertito tanto.
E la nostalgia cosa c’entra? «Non ho nessun rammarico, sono stato tra i protagonisti di uno sport nuovo fin dai suoi primi momenti e l’ho visto crescere velocemente fino a diventare una disciplina olimpica, e per quanto mi riguarda sono felice che la mountain bike sia ancora un divertimento: non guardo all’età come fa la maggior parte delle persone, anzi mi sento come se avessi appena iniziato il mio viaggio».
Quando un 64enne ti dice così, è un po’ come se ti spiazzasse. Lo vedo passare sul Danterciepies al passo Gardena, la prima delle micidiali salite della HERO: è curvo sulla sua bici, concentrato su dove mettere la ruota, pedala regolare. Dietro di lui un sacco di ragazzi di trenta, quaranta anni più giovane di lui.
E mentre mi passa vicino lo incito correndo al suo fianco: sono l’unico che lo ha riconosciuto. Cazzarola, sono davvero vecchio. “Go Ned, go… “. Lui mi sorride e inizia la discesa in Alta Badia: non ha più i baffi che lo hanno reso inconfondibile nelle griglie di partenza sul finire del vecchio millennio. Lo rivedrò dopo cinque ore nel cuore di Selva, un po’ stanco, ma certamente soddisfatto. «Sì, mi sono divertito, anche se sono allenato per pedalate da un paio di ore, non di più…». E qui oggi, il “capitano” ne ha fatte sei di ore sui sentieri della HERO. «Ned, you inspired me when I was young. I remember your mustache …» gli dirò all’arrivo, e il selfie che seguirà lo conserverò nelle foto top dell’anno.
#heroworldseries #theheroinme #HEROX19, #herosüdtiroldolomites #thisisgoingtobeepic #mountainbike #mtb #myheromoment
photo credit: Harald Wisthaler
Commenti recenti