QUARTA FILA A DESTRA, UNA CERTEZZA!
La prima volta di cui ne ho sentito parlare credo sia stato cinque o sei anni fa in una fiera. In Germania, forse. Un collega dalla forte propensione psicoanalitica, parlandomi di un atteggiamento di un amico in comune mi introdusse al magnifico mondo della comfort zone, quel perimetro di certezze verso cui tutti indistintamente tendiamo a dirigerci. Una zona franca, un luogo anche virtuale che costruiamo nella nostra mente e che ci porta a fare il copia incolla delle nostre scelte, soprattutto quando queste ultime non ci hanno messo in pericolo in precedenza.
Nell’unico anno di studi della mia breve carriera universitaria notavo che cambiando le aule, le persone tendevano a sedersi sempre negli stessi posti. Naturalmente anch’io mi comportavo nella stessa maniera: lasciavo tutti sulla sinistra e io dall’altra parte. Come a dire ” siccome qui l’ultima volta mi sono trovato bene, perché devo cercare un’altra sedia con il rischio di stare peggio?” Analisi da quattro soldi, lo so. Qualcuno dirà ‘è arrivato il Freud de noartri’, so anche questo. Però la consapevolezza della comfort zone mi ha aiutato negli anni a spiegare tanti comportamenti miei e di altre persone.
Per esempio, la comfort zone di chi corre o pedala è fare (sempre) lo stesso giro d’allenamento, quella strada, quella pista, quella ciclabile, quella salita, tutto ciò che rappresenta un terreno domestico e familiare dove non trovare sorprese.
Io per esempio ho un sacco di tracciati che rappresentano la mia coperta di Linus: a piedi ho l’anello del Bajo (un elegante quartiere residenziale dietro casa mia con una strada circolare di un paio di chilometri e poco traffico). E lì non sono solo: il Bajo è la palestra di tanti podisti da bilancia a tre cifre ma anche runner che si allenano per una qualifica a cinque cerchi.
In bici ho la salita della Val Rossa: mi piace soprattutto per il panorama sul lago d’Endine che si gode al primo tornante della discesa. Poi c’è la Val Taleggio e il suo fresco canyon che a farlo d’estate è un puro sollievo. Ma in questi giorni di preparazione per i 180 km dell’IM il mio tracciato preferito è la Sarnico Lovere, una strada di 25 chilometri che costeggia il versante occidentale del lago d’Iseo. Un capolavoro del genio civile, una terrazza sulle emozioni. Se non l’avete mai fatta, ecco, almeno una volta va fatta.
Ci sono quattro gallerie, due lunghe che conviene avere le luci posteriori ben accesse e lampeggianti. Ci sono bei rettilinei dove spingere sui pedali. Ci sono tratti dove il vento ti frusta, e non capisco mai la direzione della termica, se da Sarnico a Lovere o viceversa, fatto sta che per me il vento è sempre contro. E non capisco mica il perché.
Anche con la bici da crono il vento è sempre duro da sconfiggere: tu spingi, lui respinge.
Quando lascio Sarnico per costeggiare il lago, c’è la Riva e i suoi motoscafi strafighi sulla destra, e da qui inizia il copione di sempre: qualche saliscendi leggero, asfalto butterato da radici di platani pronte a esplodere, campeggi con roulotte piene di schiamazzi di bambini, pseudo esemplari da MotoGP e psico-centauri da domenica delle Palme, prati verdi e brandine colorate, barbecue con salamelle dimenticate sulla griglia, nonni a passeggio con nipoti parcheggiati in carrozzine a tre ruote. È una umanità che si ripropone ad ogni uscita: me ne occupo marginalmente, certo vedo tutto, ma con assoluto distacco, cercando di restare concentrato su quello che faccio e soprattutto sugli psico-valentinirossi che ti sfiorano a duecento all’ora.
Mai quando ormai sono a Lovere, quando ormai mi mancano pochi chilometri alla rotonda per rientrare a Sarnico, ecco proprio lì c’è questa roccia che scivola verso l’acqua e che l’uomo ha pensato bene di non rimuovere ma semplicemente di bucare, consentendo il passaggio della strada e con lei dei ciclisti, degli automobilisti, dei camionisti, dei fancazzisti e di tutti quelli che si credono VR46.
Io quando arrivo a 50 metri da quel buco con la pietra intorno rallento, prendo un po’ di fiato e mi godo la cornice rocciosa con al centro del quadro l’Adamello innevato sullo sfondo e l’acqua increspata del lago. Dura cinque o sei secondi, non di più. È un momento di intimità ciclistica.
Rallento e guardo, e poi mi tuffo nel quadro. Divento parte di esso.
La posizione a crono aiuta nell’immersione. Ogni volta come fosse la prima volta, ma ogni volta è la stessa volta delle mille precedenti come quando mi sedevo nella quarta fila a destra in attesa dell’entrata del professore e dell’inizio della lezione. A volte una comfort zone può essere un manubrio, una mezza galleria e qualche cima pennellata di bianco.
Commenti recenti