MARCO FAVARO, CICLISTA ALIENO IN GIAPPONE
Una passione per il ciclismo e il richiamo di una esperienza professionale in Giappone: ecco la storia di un italiano andato nel Sol Levante per un breve viaggio che sta durando da oltre trent’anni. Oggi Marco Favaro atterra in Italia per partecipare ai WPCC, i Campionati Mondiali dei Giornalisti Ciclisti.
«Nell’estate del 1991 ho avuto l’opportunità di una borsa di studio in Giappone: non ho impiegato molto per mollare Padova e volare verso oriente. Da allora vivo a Tokyo, e quella è la mia casa». Inizia così il racconto di Marco Favaro, giornalista cinquantenne tornato in Italia per partecipare ai WPCC 2019, i Campionati Mondiali per Giornalisti Ciclisti in programma in questo weekend in Veneto. Un primo inizio nella terra del Sol Levante nel mondo dell’educazione all’Università di Nagoya, per poi virare piano piano verso il giornalismo sportivo «e in particolare nel ciclismo, la mia grande passione», tanto da diventare una firma costante sul mensile Cyclist Sanspo, magazine di riferimento del ciclismo giapponese. Qui la sua rubrica.
La bicicletta in Giappone non è mai stata una disciplina molto popolare, a parte il fenomeno del keirin, la particolare specialità del ciclismo in pista: «Qui da noi è l’equivalente del calcio in Europa, una febbre che va spiegata». Infatti, la ragione di questa pratica risiede nelle radici della storia post bellica: «A differenza di altri paesi, il Giappone non ha dovuto pagare i debiti di guerra dopo il secondo conflitto mondiale, in cambio ha dovuto fare una cessione territoriale per l’installazione di basi militari USA, e per finanziare la crescita del paese istituirono le scommesse su alcuni sport, come motociclismo, motoscafi, ippica e keirin appunto».
Tuttavia il seguito del ciclismo si è avuto grazie agli anni d’oro di Lance Armstrong e soprattutto della sua fondazione LiveStrong: «Tutti avevano al polso il famoso braccialetto giallo, anche chi seguiva poco il ciclismo».
E con un certo rammarico racconta: «Di quegli anni ho perso tutta l’epopea di Pantani, e un po’ di questa cosa ne ho sofferto».
Ma la crescita delle bici da strada ha sempre faticato a crescere. Un ciclismo in pista estremamente seguito, che fa da contraltare alla desertificazione della pratica su strada: «In Giappone è estremamente difficile ottenere i permessi per la chiusura delle strade, e questo ha penalizzato la crescita delle granfondo a favore di manifestazioni in circuiti chiusi e privati: l’unica maratona in bici di una certa rilevanza è il Giro di Okinawa».
E il racconto prosegue con altri riferimenti recenti. «A dir la verità vi è stato un boom di pratica ciclistica nel 2011 dopo il terremoto che sconvolse il nostro Paese» perché l’uso di un mezzo alternativo come la bici ha aiutato molto, e a questo va aggiunto l’impegno del team professionista Nippo che possono essere considerati, a ragione, dei pionieri del ciclismo in Giappone. Un impegno quello di Marco Favaro a tutto tondo per il ciclismo con gli occhi a mandorla: organizza eventi a due ruote e collabora con Eroica Japan per la tappa giapponese della più importante manifestazione al mondo di ciclismo storico. «A questo aggiungo anche l’attività di modello, già proprio così: da anni mi metto in posa per il fotografo di Kappelmuur, un brand di abbigliamento locale ispirato al muro di Grammont».
Oggi Marco Favaro atterra in Italia per partecipare ai WPCC 2019, i Campionati Mondiali dei Giornalisti Ciclisti in corso di svolgimento sulle strade del Veneto, da Treviso a Valdobbiadene, con cronisti provenienti da 15 nazioni, Giappone compreso.
Trent’anni in Giappone ormai lo hanno reso padrone della sua vita in una terra dalla cultura molto diversa dalla nostra: «Innanzitutto la lingua: un tempo non c’era internet, e se volevi comunicare con qualcuno dovevi farlo nella modalità della nazione ospitante…quindi ho imparato gioco forza il giapponese». Tanto che oggi Marco, cinquant’anni ben portati, è l’interprete ufficiale quando il ciclismo europeo del professionismo su strada fa tappa in Giappone: «Traduco le conferenze stampa di Nibali, Sagan e di tutti pro che vengono a esibirsi qui».
Dalle sue parole Marco non si sente un estraneo nel Paese che lo ospita da trent’anni. E in attesa che qualche cantore del Bel Paese si ispiri a un italiano a Tokio, ci restano che le parole di Sting: “I’m a legal alien, I’m an Englishman in New York”.
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